di Irene Fermanelli. Sono passati 7 abbondanti mesi da quando mi trovo qui a Tena lavorando in una casa di accoglienza per donne vittime di violenza. In questo tempo ho avuto modo di conoscere più da vicino il fenomeno della violenza e tutto ciò che gli gravita attorno: la cultura machista, una società patriarcale, una carente educazione sessuale, processi psicologici legati alla dipendenza dall’altro, miti romantici ed ideali irrealisti d’amore, per citarne alcuni.

Le mie considerazioni non prendono origine solo dalla mia esperienza lavorativa di volontariato, ma più in generale da una progressiva conoscenza della cultura ecuadoriana, nella quale mi trovo immersa, e dei suoi punti critici quali machismo e sessismo che, scontato dirlo, non appartengono solo a questa realtà, ma hanno un’eco mondiale.

Questa mia testimonianza, pur non avendo la pretesa di essere esaustiva, vuole affrontare un tema in particolare: quello dell’educazione sessuale e riproduttiva.

Più conosco l’Ecuador, più mi rendo conto di quanto la cultura machista penetri ogni aspetto della vita dei suoi abitanti. Oltre che negli adulti, anche nei giovani noto una forte tendenza a considerare la donna un contenitore o un oggetto da utilizzare a proprio piacimento. Storie di ragazze drogate per essere sedotte o convinte ad intrattenere rapporti sessuali, storie di violenze, molestie od inganni, non sono qualcosa di lontano o raro: sono all’ordine del giorno e vengono agite anche da coloro che si dichiarano difensori dei diritti degli indigeni, degli omosessuali o addirittura delle donne stesse.

Mi è capitato di conversare con diversi giovani locali sul tema. Persiste una concezione della donna come di qualcosa che si “possiede”, sussiste l’idea che il sesso debba appagare solo l’uomo il quale, per il suo godimento, non usa contracettivi e porta a termine il suo orgasmo non curante delle conseguenze: “tanto c’è la pillola del giorno dopo” oppure “tanto chi mi assicura che sia mio figlio”. A volte c’è il consenso da parte della donna, altre volte si parla di violenza vera e propria.

Con alcune di queste persone ho trascorso giornate o serate di svago. Allora mi sono chiesta: come si fa a condividere un tempo ed uno spazio con chi manca di rispetto alla primissima cosa che mi appartiene e mi definisce, ovvero il mio essere donna? La risposta è forse nella comprensione, nella comunicazione, nel non tacere, nel cercare di farsi capire, di chiarire la sofferenza e la rabbia che suscitano certe affermazioni. Altra risposta è l’educazione e la prevenzione per far sì che tali pensieri, originati da una cultura che non considera donne e uomini allo stesso livello e con gli stessi diritti, possano divenire consapevoli, essere sottoposti a critica e trasformarsi ed orientarsi verso una maggiore equità e libertà.

Oltre alla oggettificazione e all’auto-oggettificazione della donna, sono da prendere in considerazione i miti e l’ignoranza che riguardano la sessualità e la riproduzione e che toccano soprattutto gli adolescenti e le adolescenti. Molti di loro non conoscono il funzionamento di apparati ed organi riproduttivi, non sanno come si rimane incinta e in che modo prevenire una gravidanza precoce, non sono a conoscenza delle malattie sessualmente trasmissibili o di come funzioni il ciclo mestruale. Ad esempio, spesso credono che al primo rapporto sessuale sia impossibile rimanere incinta e seguono un falso mito, ignorando i cambiamenti ormonali e la fertilità della donna.

In altri casi ancora, il sesso diventa un mezzo attraverso il quale garantirsi l’amore e l’affetto del partner. Ho conosciuto storie di donne e adolescenti convintesi ad intrattenere il primo rapporto sessuale ed i successivi, per paura altrimenti di perdere il proprio innamorato; donne che, seguendo un ideale irrealistico di amore che vede l’uomo come protettore, colto e valoroso, si sono completamente affidate al suo giudizio, rimanendo poi con un figlio in grembo.

Riporto qualche dato capace di avvalorare la sostanziale necessità di affrontare questo tema in termini di educazione e prevenzione.

Secondo le statistiche dell’INEC, il 37% delle adolescenti tra i 15 ed i 19 anni ha o ha già avuto una gravidanza almeno una volta. Nel 2019 sono 51.711 le nascite di figli di donne adolescenti tra i 10 ed i 19 anni che corrispondo al 18,1% delle gravidanze registrate per quell’anno. Questo significa che ogni 10 donne che partoriscono in Ecuador, prendendo in considerazione solo i nati vivi, 2 sono madri adolescenti.

Giusto per fare un confronto, in Italia, secondo i dati ISTAT del 2012, le nascite da madri minori di 20 anni è dell’1,6%.

Le principali cause di gravidanza precoce sono: iniquità, scarsa conoscenza di diritti sessuali e riproduttivi, limitato accesso a metodi contraccettivi e relazioni di genere/potere che limitano la libertà delle adolescenti (disinformazione, miti sulla salute sessuale, abusi sessuali, sfruttamento sessuale e matrimoni forzati).

Il gruppo a maggior rischio di gravidanza precoce è composto da adolescenti che risiedono in zono rurali, con un basso livello socio-economico, senza istruzione o con un’istruzione primaria incompleta, con scarse conoscenze riguardo la sessualità e che non utilizzano metodi contraccettivi.

Nel 2012 il 67,7% delle donne tra i 15 ed i 24 anni non ha utilizzato un metodo anticoncezionale durante la sua prima relazione sessuale. Tra le principali motivazioni riportano di non essere a conoscenza dei metodi anticoncezionali e l’impossibilità di ottenere tali metodi contraccettivi.

In Ecuador la quarta causa di abbandono scolastico è la gravidanza precoce. Il 44,3% delle donne che rimangono incinta tra i 15 ed i 24 anni, interrompe gli studi e non torna a studiare. Fattore, questo, che costituisce la porta d’ingresso a povertà, dipendenza e violenza.

Tutti questi dati parlano chiaramente di giovani adolescenti che non scelgono di avere figli, che si ritrovano ad essere madri senza averlo progettato, senza una pianificazione familiare. Sono gravidanze indesiderate, frutto di una scarsa conoscenza di anatomia, biologia, fisiologia del corpo umano, dei validi ed efficaci metodi anticoncezionali, dei diritti sessuali e riproduttivi; ma anche di una cultura intrinsecamente machista, di stereotipi di genere, di miti ed ideali di perfezione che girano intorno al concetto di amore.

Nei casi peggiori, troviamo gravidanze esito di una violenza sessuale, di un abuso di potere. Viene immediato domandarsi: cosa prevede lo Stato per questo tipo di situazioni? L’aborto è legale?

In Ecuador l’aborto è un delitto ed è consentito solo nel caso in cui la vita o la salute della madre è in pericolo o quando la gravidanza è frutto dell’abuso a danno di una donna con disabilità intellettiva.

Proprio lo scorso 28 aprile 2021 si è raggiunto un piccolo grande traguardo per le donne ecuadoriane: la Corte Costituzionale ha depenalizzato l’aborto a seguito di una violenza sessuale a prescindere dalla condizione psico-fisica permanente della donna. Questa decisione, finalmente, dà giustizia alle migliaia di donne, adolescenti e bambine violate ed obbligate a partorire figli nati da questa violenza. Quella che era una duplice vittimizzazione, una doppia violenza, istituzionale e statale per giunta, ha finalmente trovato un epilogo positivo.

Rimane però l’assunto fondamentale che gravidanze indesiderate, nella maggior parte dei casi, impediscono alla donna di emanciparsi, di uscire dalla condizione di dipendenza dalla sua famiglia prima e da un uomo poi. Diverse non ameranno mai profondamente i propri figli, alcune li abbandoneranno; altre rinunceranno a sogni e desideri per fare le mamme; altre ancora vivranno nell’illusione della famiglia perfetta, accettando persino violenze e minacce; qualcuna riuscirà a ricavarsi la propria autonomia psicologica, economica e sociale lottando, spesso, contro la propria stessa famiglia d’origine.

Per tutti questi motivi è fondamentale lavorare sulla prevenzione.

Da qui la decisione di noi volontarie ENGiM assieme a Samay Shutt di riattivare la LUFEM (Ludoteca Feminista, o anche Lucha Feminista), ideata lo scorso anno dalle precedenti volontarie. Si tratta di un laboratorio di educazione sessuale e riproduttiva, anche se forse chiamarlo laboratorio non è propriamente corretto: è più uno spazio di condivisione dove noi volontarie, assieme a diverse beneficiarie dei vari progetti ENGiM, dai 12 anni di età in su, affrontiamo e ci confrontiamo su temi quali anatomia genitale, ciclo mestruale, contraccezione e sessualità responsabile, malattie sessualmente trasmissibili, pianificazione familiare e gravidanza, stigma sociale e autostima, amore ideale, relazioni tossiche e violenza di genere, diritti umani e diritti sessuali e riproduttivi, sorellanza e racconti di grandi donne che hanno cambiato la storia. Sfatiamo miti e leggende, stereotipi e pregiudizi, valichiamo i tabù culturalmente imposti, impariamo tutte tanto, non solo dalla condivisione di conoscenze, ma anche dai racconti delle storie e dei vissuti altrui e costruiamo una nuova coscienza, una nuova responsabilità e un nuovo senso di appartenenza. Non è semplice catturare l’attenzione, far capire l’importanza di alcuni argomenti, mantenere vivo l’interesse e la costanza nella partecipazione. È un gruppo che vede qualcuna abbandonare, altre inserirsi per qualche giornata, poche rimanere con continuità. Ci è richiesta flessibilità ed adattamento e con certezza stiamo imparando cosa migliorare e quali errori non commettere nuovamente, con la speranza che le future volontarie possano proseguire questo fondamentale lavoro di prevenzione.

Noi abbiamo costituito un gruppo di sole donne per evitare imbarazzi e pregiudizi che si genererebbero dalla presenza maschile nel trattare questi temi, cosa comune in adolescenza. Sarebbe altrettanto essenziale creare lo stesso spazio con un gruppo di soli uomini.

Concludo condividendo un pezzetto di me, con una riflessione più ampia.

Il tema femminile credo sia forse la cosa più importante che mi porto a casa da questo anno di servizio civile, non solo come riflessione sociale e culturale, ma come cambiamento personale. Sto scoprendo cosa voglia dire essere donna ed ho scoperto quanto, troppo spesso, tra donne si instaurino meccanismi di gelosia, invidia, competizione, paura nei confronti della bellezza delle altre.

Conosciamo già l’origine di questo “male”, è una delle tante conseguenze della solita storia, che va ribadita ancora ed ancora: viviamo in una società patriarcale, maschilista e narcisista (e in quanto tale sofferente), immersi in una cultura del possesso, dell’esclusività e del consumo. Ne siamo condizionati tutti, donne e uomini. Si tratta di riconoscere e riaffermare che questa cosa esiste, ma non solo a parole, va combattuta per davvero, pubblicamente e ancor più privatamente.

Spesso quando parlo di femminismo, mi rendo conto di quanto questa parola susciti repulsione tra donne e uomini, e me ne dispiaccio. Evidentemente si è perso il significato reale di questo termine. Femminismo non si significa guerra tra i sessi. Trovare nell’uomo il nemico da combattere non è una risposta capace di guidarci verso il cambiamento. È certamente vero, però, che questa lotta parte e deve partire soprattutto da noi donne, perché siamo noi ad essere le vittime dirette e in maggior misura consapevoli delle ingiuste conseguenze provocate da questa cultura. Lo sperimentiamo e lo viviamo sulla nostra pelle. Ogni giorno. Per un uomo, che, al contrario, è spesso una vittima inconsapevole, è forse più difficile comprendere il valore reale di questa lotta. Le loro ferite sono interiori, profonde e nascoste, le nostre sono anche cicatrici sulla nostra pelle e in quanto tali più evidenti. Femminismo, quindi, significa senza dubbio lottare per equità, diritti e giustizia; ma anche lottare contro i meccanismi interiorizzati ed automatici che mostrano l’uomo come protettore, come salvatore, come persona da sedurre, da attrarre, da cui ricevere conferme sulla nostra bellezza, intelligenza, simpatia, femminilità ecc. Non dovremmo averne bisogno, eppure ne conosco tante di donne che vivono un forte senso di inferiorità nei confronti dell’uomo e delle altre donne. Io stessa, alle volte, continuo a vivere queste sensazioni.

In questo servizio civile ho incontrato delle amicizie femminili con le quali e attraverso le quali questi meccanismi vengono vissuti, espressi e dipanati.

Pensando alle tante donne che ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere durante questi mesi, mi viene in mente la parola sororidad. Per spiegare il significato che io gli attribuisco, riporto un breve testo che ho scritto pochi di mesi fa:

“Ho conosciuto tante donne meravigliose nella casa di accoglienza. Ho avuto modo di ascoltare le loro storie, sostenere i loro sguardi e accogliere le loro lacrime. Come volontaria psicologa, ho modo di supportarle nel percorso di elaborazione del vissuto violento, di accompagnarle a perizie psicologiche, indagini legali, visite ospedaliere e, più in generale, di sostenerle tutte quelle volte in cui la solitudine spaventa e il supporto, non semplicemente di una lavoratrice, ma soprattutto di una compagna, diventa compassione e compartecipazione. La forza ed il coraggio di queste donne sono fonte di ispirazione e la loro lotta privata è anche la mia, diventa una lotta condivisa. E quando penso a questa lotta collettiva, mi viene in mente la parola sororidad. Traducibile come sorellanza, una solidarietà tutta femminile, propria di noi donne e delle nostre lotte. Noi compagne. Violenza, sessismo, misoginia, diritto all’aborto, diritto alla nostra libertà. Perché essere donne è davvero difficile, ma non cambieremmo il nostro sesso per nulla al mondo. E poi c’è quel livello direi onomatopeico: il suono della parola ‘sororidad’ ricorda proprio il rumore, la sonorità. Mi figuro una folla di donne che lottano privatamente e tutte insieme, non solo per se stesse, ma le une per le altre. Donne che cantano, suonano, ballano, marciano, abbracciano e tutte insieme scuotono, fanno tremare la terra, cambiano gli equilibri e affermano i loro diritti, la loro libertà.

Quella della violenza sulle donne è una delle tante lotte che non riguarda solo alcuni di noi, ci riguarda tutti.” Credo così fermamente in questo cambiamento socio-culturale che nel mio ufficio ho dipinto, assieme alla mia amica e collega Valentina e alle donne della casa di accoglienza, uno dei simboli della lotta femminista!