di Valentina D’Ippolito. E’ sabato sera. Ho appena gustato un kebab vegetariano da Moustafa e sono al Curassow, il mio localino preferito di Tena. Sono al bancone con Francesca, ci scambiamo qualche battuta e ridiamo, bevo un sorso di guayusa e penso “è ghiacciata, che delizia”. Il nostro stato d’animo leggero e spensierato non si sposa con quello degli altri attorno a noi, che sembrano piuttosto preoccupati. Specialmente Gabo ha il viso corrucciato, è in pensiero per il fiume. Effettivamente non ho mai visto il fiume così alto, né così rapido. Tutti ne stanno parlando. Qualcuno scende e si avvicina, dice che non c’è pericolo: manca ancora un metro e mezzo all’argine. Adesso che ci penso sta piovendo fortissimo da almeno tre ore, ma sappiamo bene che questa pioggia in Amazzonia è all’ordine del giorno. Soprattutto ricordo di aver visto il fiume due ore fa, mi pareva assolutamente normale, come ha fatto a crescere così velocemente? Deve essere piovuto molto a monte nei giorni precedenti. Non ci avevano detto che questa era la stagione secca?

D’improvviso sento il cuore sobbalzarmi e dico: “Chissà come se la passano a Playita”. Tre secondi dopo, difficile pensare sia un caso, mi squilla il telefono ed è Monica, la mamma di Mauricio e Joseph. Mi chiama da Playita e ha la voce rotta, è nel panico. Dice che il fiume ha straripato, l’acqua è arrivata nelle loro case, mi chiede aiuto, chiede di andare. Io ho il cuore in gola e le lacrime agli occhi, sono spaventata. Vorrei che ci fosse Matteo, che però è appena partito per una meritata vacanza. Chiamo Roberto per avvisarlo, se lo immaginava, sta già pensando a un piano d’azione. Do un secondo sorso alla guayusa, che stavolta è meno buona, e la lascio ad Angelo. Senza pensarci Francesca ed io ci avviamo sotto la pioggia incessante. Fortunatamente incontriamo Ramzi che ci da un passaggio. Prima di arrivare all’imbocco della strada, che scende ripidamente e porta al barrio, io ho ancora il cuore in gola e, semplicemente, ho paura. Poi ecco che scendiamo, piove ancora fortissimo ma non ci importa, d’altronde siamo fradice. Playita è diventata il fiume, c’è acqua dappertutto. In molti si riparano sotto le tettoie o dove possono e guardano lo spettacolo inquietante. Altri sono intenti a trasportare oggetti e metterli in salvo. Continuo a scendere e incontro Clemente, mi prende per mano per guidarmi. Mi immergo e l’acqua mi arriva fino all’ombelico, sono in ciabatte e ho un po’ di timore, fa freddo. Finalmente raggiungo casa di Monica che è sollevata nel vedermi e ci abbracciamo. Hanno già portato la maggior parte delle cose al piano di sopra ma sono preoccupati che l’acqua salga ancora. Monica quasi piange dicendo che i libri dei bambini si sono bagnati. Io chiamo i pompieri che non arriveranno mai. La verità è che non so cosa fare, mi sento impotente ma voglio stare lì. Cerco di tranquillizzare quella dolcissima mamma che si preoccupa per i compiti dei suoi bambini ed esco dalla casa, ora l’acqua mi arriva quasi al collo. Fortunatamente la corrente non è forte. Mi affaccio nella casa degli abuelos e vedo il letto galleggiare. Mi spingo a guardare più in là, dove abbiamo costruito la choza, dove ogni mattina facciamo scuola con i bambini, e mi impressiono, l’acqua è altissima. Risalgo e mi metto con gli altri al riparo dalla pioggia. Chiedo se c’è un piano, mi rispondono nessun piano, solo  “Esperar”. Esperar. Aspettare e sperare, ecco cosa stavano facendo. Mi unisco a loro. Il fiume ha inondato la Chakra, la cancha, i piani terra delle abitazioni costruite più in basso e il pollaio che abbiamo appena finito di costruire. I bambini tremano ed Evelin è triste perché i suoi genitori sono rimasti intrappolati al primo piano dell’abitazione e non riescono a scendere. Nessuno di loro però sembra particolarmente sotto shock, come lo siamo io e Francesca. D’altronde non è la prima volta che affrontano un’inondazione. E’ già successo nel 2017, nel 2011 e nel 2010. Ed io lo sapevo, sapevo sin dall’inizio che quel territorio è fragile e ad alto rischio, quante volte ce lo siamo ripetuti; eppure vedere con i propri occhi non è la stessa cosa che farsi raccontare, non ero preparata. Mi sentivo ancor più sconvolta nel percepire la loro tranquillità di fronte al fatto: “Estamos acostumbrados” qualcuno mi ha detto. “Así es la Amazonia” ha aggiunto qualcun altro. Poco tempo dopo, muniti di galosce e impermeabili, sono arrivati i rinforzi da tutto l’equipe Engim. Decidiamo di far venire a dormire i bambini e gli abuelos a casa da noi, al caldo e all’asciutto, ma non convinciamo proprio tutti, qualcuno non vuole lasciare la famiglia. Poco dopo arriviamo a casa e, tra coperte, asciugacapelli e tazze fumanti di camomilla, improvvisiamo quello che dai bambini verrà ricordato come il pigiama party a casa Bonuchelli. Quando l’entusiasmo si placa e gli occhi dei più piccoli si chiudono, anche io e Francesca ci stendiamo lì accanto, ma quella notte è proprio difficile dormire.

Il giorno dopo è quiete. Del temporale poche tracce, solo qualche nuvola sparsa. Quando arriviamo a Playita il fiume è ritornato nei suoi argini e troviamo tutti a pulire, a spazzare via il fango dalla casa. Ci fermiamo lì con loro ad aiutare. I bambini ridono, corrono, fanno le scivolate nel pantano; è già un gioco per loro. Ed io, in quella domenica mattina diversa dal solito, non vorrei essere da nessun altra parte se non lì, con queste persone, a sistemare i danni di una natura troppo forte. Il senso di comunità che ho respirato non posso certo dimenticarlo, a dimostrazione del fatto che il concetto di minga, di lavoro solidale e comunitario per il bene comune, appartiene profondamente alle persone di qua.

El agua es vida. L’acqua è l’elemento portante dell’ecosistema amazzonico, il cuore pulsante di una fitta rete di fiumi comunicanti che attraversano la foresta pluviale. Qui si trovano gli habitat più ricchi e complessi di specie vegetali e animali del mondo. Un patrimonio preziosissimo. Di questo valore le comunità indigene sono profondamente consapevoli, non solo perchè ne dipende la loro sopravvivenza, ma perchè ad esso si sentono intimamente connesse, da un punto di vista simbolico e spirituale.  In Ecuador, nell’area geografica dell’Oriente, in gran parte occupata dalla foresta amazzonica, è situata la maggior parte dei territori che da lungo tempo appartengono alle popolazioni indigene. Playita è la comunità kichwua dove ho preso parte al progetto Engim di apoyo integral infantil. E’ insediata sull’argine del fiume Pano e vive di questa acqua: gli abitanti la utilizzano, nonostante l’inquinamento ormai accertato, la bevono, ci pescano e ci si lavano.

Lo stesso fiume che è vita a volte si trasforma in una minaccia, fonte di distruzioni e tragedie. La natura in Amazzonia è potente e incontrollabile, ma spesso è l’uomo a causare i danni maggiori. Sfruttamento del suolo, deforestazione, impianti petroliferi e minerari costruiti anche all’interno di riserve naturali. Un intervento antropico massiccio e prolungato che i governi non sembrano affatto voler arrestare, continuando a concedere concessioni che minano il futuro di un ecosistema intero. Ad oggi, non esiste una pianificazione e una gestione dell’impatto ambientale e delle ricadute sociali: le acque sono contaminate, i rischi idrogeologici aumentano, sempre più territori diventano inospitali e inadatti alla vita mentre la ricchezza non viene redistribuita e la povertà rimane su quei territori.

A questa logica antropocentrica, che considera la natura solo come un insieme di risorse da sfruttare, si contrappone una visione ecocentrica propria di molte comunità indigene per la quale all’amore per la natura, si accompagna una consapevolezza, quasi innata: l’uomo e la natura sono un tutt’uno, la cui coesistenza armoniosa è un presupposto irrinunciabile per una vita piena e dignitosa, per uno scambio alla pari tra ambiente e comunità.

L’Ecuador rappresenta un ottimo esempio di come i movimenti indigeni siano riusciti a far valere le proprie ragioni, influenzando fortemente la storia politica nazionale. Le lotte per la difesa dell’identità dei popoli, per la riappropriazione della terra e dei territori ancestrali, hanno portato alla vittoria di numerosi conflitti sociali ed ambientali e alla produzione di uno spazio politico autonomo. Tra i temi centrali anche il riconoscimento dello stato plurinazionale e dei diritti della natura, la Pachamama, che trova le sue fondamenta nel concetto di sumak kawsay. Tradotto letteralmente dal Kichwa “buen vivir”, esso indica l’idea di convivenza e equilibio armonioso tra esseri animati e inanimati, di culto per la Terra.

Questa lotta non viene portata avanti solamente dai movimenti più organizzati ma prosegue anche su altri piani, meno ufficiali e meno evidenti, non per questo meno significativi. Sono moltissime le comunità resistenti locali che difendono la natura. Ne esistono migliaia, come Playita, che soffrono ma resistono e, grazie al mutuo appoggio e alla solidarietà, continuano a sopravvivere in zone ormai quasi inabitabili, così dette “zone di sacrificio”. Mentre le calamità naturali diventano sempre più frequenti, esse dimostrano una caparbietà, un legame, un radicamento così profondo con la terra, e con la natura, che non esiterei a definire “Resistenza”. Anche le classi sociali più marginalizzate, in questo senso, portano avanti un’azione quotidiana di difesa e di cura della Terra decidendo di non andarsene e di non abbandonare una terra ormai inospitale, ma di rimanere e di difenderla. Una difesa quotidiana, quasi istintiva che, nel nostro caso, è anche una dichiarazione ontologica in quanto comunità kicwhua, che vive, da quattro generazioni, sulle sponde del fiume Pano. Poter parlare di Playita e di queste realtà, della loro forza e della loro resistenza, mi fa sentire orgogliosa di aver svolto un lavoro, quello dell’operatrice volontaria, i cui principali compiti sono: osservare, documentare e raccontare. Se la mia esperienza si è conclusa, almeno per ora, sul piano materiale, non lo è, e forse non lo sarà mai, su quello immateriale. Continuare a raccontare quello che ho visto e vissuto per me significa continuare ad essere là, al fianco di quelle comunità che lottano e resistono.