Immaginati due scenari.
Scenario 1) è luglio, sei al mare, abbronzata e rilassata, libro e spritz, ci sono dei bambini che trottano per la spiaggia, imbastiscono parallelepipedi un po’ ammaccati di sabbia molliccia che dovrebbero essere castelli, i genitori li mollano lì e vanno a prendere il sole si fumano una sigaretta chiacchierano; altri sguazzano felicemente nella secca bassa lasciata dalla marea, guardano a destra a sinistra, strizzano gli occhi con fare losco, si abbassano il costume e fanno pipì; le signore anziane ondeggiano un po’ più avanti, perché si sa, camminare nell’acqua salata fa bene alle vene varicose e alla circolazione. E poi zaffate di creme solari, tricicli, pedalò, cocco bello, traffici di pesche gialle e polpe di albicocche sgocciolanti sulla sabbia, tupperware grondanti paste e risi, “OOOH TONINO, CO’ FAI, GIN A GIOCA’ LE BOCCE?”, e si fa una visitina ai vicini di ombrellone, e pausa birretta -ma pausa da cosa, poi- o partitina a beach. Non hai una preoccupazione al mondo.
Scenario 2) è il 25 gennaio, sei nella selva, la tua quarta ora di trekking, sei coperto dalla testa ai piedi per proteggerti da tutti gli agenti atmosferici, è inverno ma stai sudando malissimo per il caldo opprimente, soffocante, appiccicaticcio, umidiccio, che ti schiaccia le spalle e azzanna le gambe e eccolo là: hai appena visto un cranio sgozzato di pappagallo brulicante vermiciattoli festosi che ballano la cumbia sui brandelli di carne mutilata. I tuoi sensi sono all’erta, guizzano alla ricerca di un’ombra pelosetta che potrebbe essere una coda di ocelot.
Ah no, aspetta.. sono i sensi della guida kichwua a essere all’erta, suo il machete teso e scattante pronto a fendere le liane che impediscono il passaggio, suo il cane -perché c’è sempre un cane- col naso affilato affondato nel verde della giungla, a saper distinguere un cip cip da un tip tip a uno squik squik, ah già, quello è un verso di oropendola, l’altro invece è solo il suono delle tue botas che sguillano nel fango. Invece i tuoi, di nervi, sono solo un groviglio spastico imbalsamato e agonizzante, che non sai se guardare in basso perché stai franando da qualche parte, in alto perché un mono ti sta per fare la cacca addosso, a destra perché ti stai appoggiando a un tronco muschioso, ma potrebbe esserci la konga sopra, quella formica gigante dal morso doloroso quanto la puntura di venti vespe, o a sinistra perché.. sbam. Troppo tardi, sei già andata a sbattere su un tronco che ti stava proprio davanti al naso, “ma come hai fatto a non vederlo?”

Ho detto nervi? Intendevo sensi – Scusate, lapsus froidiano

Questo succede perché non sei più a casa tua, nello scenario 1) la tua confort zone il tuo porto sicuro la tua area relax, -che poi forse tanto confort non ti sentivi se ti sei andata a cacciare in scenario 2), sei in Amazzonia, ma mica per modo di dire, questa volta per davvero, con le tarantole, l’umidità 100% come dice ilmeteo.it, i serpenti, la biodiversità, le montagne russe di altitudini, i serpenti e compagnia bella.
Da quando sei qui, la tua percezione dell’ambiente cambia drasticamente: è una natura pericolosa, una natura folle, che ha poco di svago, e molto di fatica, che frena in ozio e accellera in incanto, in vertigini, in dimensioni. Una natura con cui si convive con difficoltà e che ha abituato la gente a difendersi con violenza, una natura la cui sovrabbondanza è data per scontata, e forse anche per questo viene mutilata senza troppi pensieri.
Veniamo da un mondo in cui la natura mediterranea con cui siamo cresciuti è una natura addomesticata che ci accompagna e ci asseconda: un posto per famiglie, uno sfondo per le grigliate, testimone mite placida discreta o al massimo fastidiosa se ci sono due morsi di zanzare, un’ape che ronza intorno al pranzo, un ragno sul muro. Qui invece ti accorgi che muta il tuo corpo: ti fa dimagrire, ingrassare, sei butterato di croste, punti rossi, morsi, bubboni nelle cosce, nel sedere, nelle tette, nel collo, nell’incavo dei gomiti e delle ginocchia. La tua vita intestinale è ammaccata: le tue cacche sono strane: più frequenti, meno frequenti, sciolte, dure, a volte hai delle fitte dolorose, sai che se andrai a farti le analisi ti troveranno dei parassiti o alla meglio qualche infezione. Non sai come gestire questo cibo, che a volte ti trovi a mangiare in comedor scassati dalle pareti scrostate e colorate, e coi ventilatori che ronzano, questa acqua che non si può bere, queste banane che vengono ficcate dappertutto -soprattutto coi fagioli.

“ma chi te l’ha fatto fare?” “ma dove sei finita?” “ma come vivi?” ma..

Ma poi succede anche roba diversa.
Per esempio ti può succedere di fare amicizia con quei gekini tropicali che urlano come dei maledetti la sera prima di andare a dormire, quelli che all’inizio un po’ di inquietudine te la facevano, ti disturbava un po’ dover levare le loro cacche dai tuoi vestiti appesi negli armadi scoperti, ma ora quasi che ti mancano se non vedi le loro ombre sulle tende, stiracchiati a prendere il sole. Scopri anche innumerevoli cose. Per esempio scopri un’insopprimibile esuberanza vegetale. Tutto intorno a te cresce, bolle, fermenta, si ramifica e prolifera. Scopri che c’è una varietà tale di qualsiasi cosa che tenere a mente quell’affastellarsi di forme e nomi è quasi impossibile. Ci sono dei melograni che sbocciano da soli, con chicchi rossi appoggiati alla buccia aranciata che si aprono come raggi di sole, cacao rossi e bianchi che sembrano rugose palle da rugby, salak che sembrano uova di drago. Scopri che qui di varietà di api ce ne sono duecento e senza pungiglione, ci sono frutti che puzzano ma che sanno diventare oggetti se vengono tagliati, svuotati, grattati e raschiati, e a fare queste operazioni ti chiedi se li hai mai davvero capiti quelli che crescono a casa tua, di vegetali, e quante cose diverse ci si potrebbero fare, e che non facevi solo perché ti avevano abituato a usarli in un solo modo. Scopri anche il piacere nel fabbricare soluzioni in comunità, perché qui molte cose non esistono. Apprezzi questa indomabile creatività che nasce dal bisogno, che ti allena un sapere pratico, solido, tecnico: come si aggiusta un’amaca, come si fabbrica il sapone, cosa potremmo usare per delle maschere per i capelli, come usare per un lampadario. Scopri il gusto della sperimentazione, perché cibi completamenti sconosciuti ti aprono davanti infinite possibilità di creolizzazione alimentare. Puoi fare gnocchi di yucca, frappé di latte di mandorla e borojò, milk-shake di tomate de arbol, tisane di zenzero e hierba luisa, polpette di platano verde e strudel di maduro. Assaggi le empanadas de viento dove il morbido del formaggio sciolto abbraccia lo zucchero croccante e improvvisamente pensi che la pizza hawaiana è giusta e ha senso, perché le frontiere tra dolce e salato diventano liquide e fragili come gli occhi di chi è innamorato.
Ti ritrovi ad assistere a tante cose strane.
Per esempio mai avresti pensato che il rapporto con gli animali fosse così conflittuale: mai avresti pensato di vedere dei bambini prendere a sassate un cane, tirare i calci a un gatto, ammazzare un coniglietto minuscolo. Tra i Kichwa un primo istinto di fronte all’estraneità animale è l’utilitarismo: si tiene ciò di cui si ha bisogno. A Tena non esiste quasi una casa che non possegga un cane. Orde di cani vagano indisturbati in ogni angolo della città, attaccano quando entri nel loro territorio, si grattano perché straripano pulci, sono pelle e ossa perché non gli viene dato da mangiare, ci seguono al minimo cenno di affetto che gli diamo perché non ne ricevono mai. Sono oggetti con funzioni prestabilite, e essere destinatari di affetto non rientra tra quelle funzioni.
Però il secondo e principale istinto è quello della morte.
Ti eri fatta un film romantico che i Kichwa avessero conoscenze approfondite di piante e animali, invece quando vedono un uccello spesso non lo riconoscono, quando vedono un serpente l’amazzano. Forse è questa moltitudine che li circonda a farli pensare che dove c’è un coniglietto ce ne sarà un milione, uno sostituibile all’altro, non un sé individuale ma un parlamentare del suo mondo di coniglietti, un’unità permutabile, sostituibile, un coniglietto di una lunga fila di coniglietti, o un target su cui sfogare qualcosa perché quel coniglietto lì è persino più debole e indifeso di loro. Qui vive un mondo diverso rispetto a quello dei coniglietti italiani, oggetti di amore, soffocante adorazione bambinesca, ma comunque oggetti di quel dominio che noi siamo abituati a esercitare sulla natura come fossimo noi a decretare se un animale è un oggetto adibito al nostro affetto oppure se va allevato, rinchiuso, ucciso e fagocitato.

Ma siamo davvero così diversi?

Io comunque li vedo anche quando sogno. Si fanno sogni densi in mezzo alla selva, pastosi, quando senti più i rumori della pioggia e degli animali che non il tuo stesso respiro. Sogno ratti, sogno tarantole, sogno fiori tropicali, farfalle enormi blu come quelle strisce di mare più profondo che a nuoto non puoi raggiungere, che vedi luccicare solo se ti arrampichi su una collina e le vedi in lontananza. L’altra notte ho sognato un serpente lungo, arancione, grande, enorme come un coccodrillo. Strisciava piano sotto i miei piedi mentre mangiavo, mentre camminavo, mentre ero in bagno e mi lavavo i denti. Per i Kichwua il serpente è un animale potente, è un animale che segna il confine tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Questo ci hanno detto in mezzo alla selva, mentre bevevamo wayusa bollente alle 3.30h quando la notte è più nera, e non si sente nulla intorno a te, se non il suono basso e gutturale del churo che usano per svegliare la comunità.
Nelle storie ancestrali quando deve succedere qualcosa di magico e inquietante succede sempre quando si è soli in mezzo alla selva primaria, o nelle profondità scure delle grotte. Gli sciamani vengono rappresentati con tratti zoomorfi, perché essere per metà animale, gli dà qualcosa in più, li eleva li santifica. Il giorno in cui sono andata alla marcia per la protesta contro la mineria, che inquina i fiumi di mercurio, i serpenti erano nei volti delle persone con strisce aranciate dipinte di achiote, e campeggiavano nei volti di molti quei tratti triangolari che lo simboleggiano. Questo dicono quei segni nei loro volti: io non sono abbastanza ora, datemi qualcosa del serpente. Datemi la sua saggezza, datemi la sua forza, la sua astuzia, che ne ho bisogno in questo momento.
Ci sono altre cose che fai: hai le mani impastate di barro rosso, ocra, malva, bianco e ci fai gusani lunghi, serpenti anche quelli, che devi incollare in modo poco intuitivo l’uno sull’altro bagnandoli con l’acqua. Ti impigli in questa nuova possibilità di vedere qualcosa dove prima c’era solo un mucchio di fango.
La decomposizione però è dappertutto: devi ammazzare i topi che vivono in cucina, quando sono storditi dal veleno li devi affogare e bruciare, gli ficchi la testa sotto finché smettono di respirare; devi prendere i polli, gli devi tranciare le ossa col coltello, e levare gli organi rossi con le mani. E capisci che anche tu ormai, vivi una vita di violenza e bellezza. Come quando eri atterrata a Quito quella prima volta, a dicembre, e avevi pensato che qui i racconti prendevano forma, le nuvole come boa di cotone intorno al collo delle montagne.
Se devo essere sincera, faccio ancora fatica a mettere insieme tutte queste dimensioni della natura. Per i Kichwa è un rapporto complesso, stratificato, multiforme, che raggiunge picchi di sacralità o precipita nella violenza. Faccio fatica anche a decifrare cosa penso io di questa natura. La natura prima di venire qua era una cosa semplice, e ora è una cosa difficile. Ma se ci penso bene era iniziata a diventare una cosa grandiosa e terribile già da quel marzo 2020, è solo che non l’avevo ancora inquadrata bene.