di Beatrice Forese – Da quando sono arrivata in Ecuador la percezione del tempo è la cosa che mi sembra più differente, come se, dall’altra parte del mondo, anche i secondi abbiamo un altro modo di scorrere. Quello in Ecuador è stato il mio primo viaggio intercontinentale, lontana da casa e con un modo di vivere così diverso ma così da scoprire. Non è solo una questione di fuso, anche se 7 ore di differenza con l’Italia sono tante, considerato che si possono quasi confondere i buongiorno con le buonanotte.
La gente qui dice parole come un ratito o una ahorita che indicano un arco temporale indefinito tra il “fra poco” e il “alla fine del mese” . Mi è capitato di fare una “passeggiatina veloce” di 3 ore, di cui una in salita con tanto di scalata su una roccia.
Quando la percezione del tempo è così differente rivaluti molte cose, ripensi a quello che per te è stato, al tempo passato, e rivaluti quello che sarà, il tempo futuro. Le giornate trascorrono diversamente: iniziano all’alba e finiscono al tramonto. Mi sono riscoperta mattiniera, vado a letto presto e mi sveglio alle 6, anche se il sole è già alto; mio padre sarebbe molto fiero di questo traguardo, così “adulto”…
Ogni giorno è talmente tanto pieno di emozioni, cose nuove, differenti, stimoli e scoperte che una giornata può durare una settimana e una settimana un solo secondo. Sono qui da quasi un mese, sembra quasi impossibile, a volte mi sembra di stare qui da almeno almeno 6 mesi, altre di essere arrivata ieri. Alcune volte mi ricredo una locals ma poi la realtà che mi circonda mi ricorda che pochi secondi non bastano per capire tutte quelle cose strane che mi circondano.
Dall’altra parte del mondo a volte sembra la stessa vita di prima, altre di essere su un altro pianeta. Ci sono cose a cui mi sono abituata in fretta: la frutta esotica gustosa e a basso prezzo per colazione, salire e scendere dagli autobus in corsa, la sveglia presto tutte le mattine per raggiungere il CEIPAR e tutti i bambini che mi aspettano per fare i loro compiti e riscoprire quella gioia dell’infanzia che nelle loro case probabilmente non trovano, che li fa essere già dei piccoli adulti. Per altre cose sto facendo più fatica: la carta non si butta nel WC ma nel cestino, il telefono non si tira fuori dalla tasca in luoghi affollati perché potrebbe essere pericoloso, il vestirsi a cipolla (ancora non ne azzecco una in fatto di vestiario, con questo tempo un poco loco che non permette di fare previsioni e mi fa avere sempre il raffreddore).
Una cosa però mi sta facendo faticare molto a prendere il ritmo: la sicurezza. Quito è una città complicata, pericolosa, in cui una persona, una donna in particolare, non può permettersi di andare in giro da sola. Delle sue infinite meraviglie e stranezze, questa è la parte che più mi spaventa. Non so se potrò mai abituarmi a questa mancanza di indipendenza e autonomia che per tanti anni ho invece cercato di guadagnare. Ci si muove sempre in gruppo, il che, in una squadra di 7, ti fa allenare per la vita alla sottile arte del compromesso.
Il tempo si misura anche dalla routine delle giornate: il mio lavoro è in un barrio del sud, vicino ad uno dei quartieri più pericolosi di Quito, l’attenzione dev’essere sempre alta, soprattutto in autobus e nel tragitto a piedi. Il centro di educazione in cui presto servizio è gestito da suore, di cui una in particolare, Suor Serafina, una donna di 72 anni con uno spirito combattivo mai visto prima, pilastro portante della gestione e organizzazione del CEIPAR. I beneficiari principali sono bambini e ragazzi, i quali per la maggior parte provengono da situazioni familiari di forte disagio e violenza, spesso hanno i vestiti sporchi e un odore molto acre. Un diverso target di persone che il centro aiuta è rappresentato dagli indigenti, i borrachitos come vengono bonariamente chiamati. Persone senza fissa dimora che vivono per strada, alcuni tossicodipendenti, e che probabilmente per campare rubano e raccolgono quello che la strada gli offre. A queste persone il centro dà la colazione ogni mattina, dalle 7.30 alle 10, dal lunedì al giovedì, compromesso per rassicurare i vicini, con la vigile presenza di alcuni poliziotti. A volte si presentano ragazzi molto giovani, neppure ventenni, vestiti di stracci totalmente inadeguati al clima pungente delle notti quiteñe. Ci sono sia donne che uomini, alcuni prendono il cibo per tutta la famiglia. Si presentano anche persone molto anziane, los abuelitos, che ti sorridono con quel sorriso sdentato che però ti riempie il cuore, perché in fondo un aiuto concreto lo stai dando davvero. Ma mentre riempi quei contenitori sporchi con l’arroz, dentro di te pensi che quelle stesse persone che tu stai aiutando potrebbero essere gli stessi ad aspettarti dietro l’angolo del centro per derubarti, perché, alla fine, per quanto potrai aiutarli e cercare di integrarti, rimarrai sempre un gringo, uno straniero, un europeo, un ricco.
È una cosa strana il tempo dall’altra parte del mondo, trascorre più lento e fluisce più veloce. Aspetta che ti adatti, che impari la cultura e le traduzioni ma ti ricorda ogni giorno che il tuo servizio civile ha una fine, che sarai utile ma fino ad un certo punto, che la frutta che mangi ogni mattina prima o poi ti mancherà, oppure che, per quanto potrai sforzarti di aiutare, provare a cambiare le cose, sarai sempre un ospite in terra straniera.